Pietro
Ivaldi, abile pittore sordomuto, così come viene definito da Don Bosco
nella storia del Santuario della Madonna della Pieve, è nato a Toleto di
Ponzone (AL), nella borgata di Piangamba, nel 1810. In quegli anni
Toleto, secondo quanto riportato dal Casalis, autore del pregevole
dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati
sabaudi, si presenta come un paese povero, prevalentemente contadino,
composto da poche famiglie, gran parte delle quali residenti intorno
alla chiesa, con una popolazione che, includendo la località Abasse,
racchiude circa 120-140 anime. Da qui un giovanissimo e già dotato
Pietro, è partito alla volta di Acqui Terme, per poi dirigersi con la
famiglia ad Asti.
La sua attività artistica ha inizio con un alunnato presso l’Accademia
Albertina di Torino la cui direzione era allora affidata a Giovanni
Battista Biscarra, ove sicuramente entra in contatto con i paesaggisti
De Gubernatis, Paroletti, D’Azeglio, Righini e Reviglio, da cui saprà
mediare quella particolare disposizione alla pittura di paesaggio che lo
caratterizzerà per l’intera esistenza.
Altri suoi punti di riferimento questa volta
slegati dall’ambiente accademico, sono da individuare nelle opere
eseguite nell’astigiano da Lorenzo Peretti a cui l’Ivaldi si riferisce
nelle composizioni sacre di maggiore complessità, mai dimentico di
quella tradizione pittorica italiana d’eccellenza su cui egli stesso
aveva studiato durante i numerosi viaggi a Roma, Venezia e Firenze in
compagnia del fratello Tommaso (Toleto di Ponzone 1818 - Acqui Terme
1897). La vita di Pietro corre infatti parallela con quella del
fratello, valente stuccatore, che, oltre ad aiutarlo nella realizzazione
delle opere artistiche, quasi sempre lo affianca o addirittura lo
sostituisce nella stipulazione di contratti, atti di commissione o
ricevute di pagamento.
La vasta produzione del Muto, soprattutto
affreschi, inizia a partire dagli Anni Trenta, e si protrae sino al
1885, anno della sua morte, avvenuta ad Acqui Terme, interessando molte
chiese di varie località: Acqui Terme, Montaldo Bormida, Ovada, Molare,
Trisobbio, Ponzone, Rossiglione, Ciglione e tante altre, senza
dimenticare la sua attività nell’astigiano, nel vercellese, nel casalese
ed anche in Liguria (Sassello, Celle Ligure) e in Lombardia.
La pittura del Muto, che affronta quasi sempre
soggetti sacri, si connota con stesure piatte di colore, contorni netti
ed una certa rigidezza compositiva, lontana dal brio delle pennellate
vivaci e sottili di gusto barocco e Rococò dell’epoca. Pietro Ivaldi è
tuttavia straordinario nel manifestare con varietà le diverse
espressioni e i momenti legati a vicende e atmosfere particolari,
consapevole della destinazione e del messaggio contenuto nelle opere.
Eventi che riaccadono davanti agli occhi di tutti, dai fedeli più vicini
a quelli più distanti. Colori luminosi accendono le sue scene,
ambientate talvolta in paesaggi riconoscibili, come in un affresco della
Parrocchiale di Visone, o nella Resurrezione del figlio della vedova di
Naim della Parrocchiale di Molare, dove è individuabile il locale
castello, o nella Madonna degli Angeli, della Chiesa di santa Caterina
di Rossiglione Superiore con il fiume e il vecchio ponte.
La sua pittura si sposa perfettamente con
l’ambiente socioculturale per cui è stata prodotta, in obbedienza alle
esigenze di una committenza religiosa la cui prima missione era quella
educativa. La sua arte diventa per le popolazioni delle campagne sopra
indicate, sussidio visivo necessario per la catechesi che viene offerta
attraverso la suggestione di un colore puro e la semplificazione delle
forme costruite nel rigore di un segno disegnativo di chiara ascendenza
accademica. Tuttavia l’accademismo del Muto si mescola ad una esigenza
comunicativa diretta che si esprime attraverso una gestualità insistita
impossibile da eludere in un rapporto anche superficiale con la sua
pittura.
Questa gestualità che è la caratteristica
stilistica dominante della sua arte, è da connettere direttamente alla
sua infermità (Pietro viene infatti soprannominato “il Muto” in quanto
sordomuto, dalla nascita, o comunque fin da bambino, come alcuni
sostengono, in seguito ad uno spavento) e alla pratica del linguaggio
dei gesti, linguaggio che in quegli anni veniva codificato da Padre
Assarotti e che proprio ad Acqui Terme avrebbe avuto un buon diffusore
in Don Francesco Bracco attivo in città a partire dalla fine del III
decennio del secolo. La corrispondenza fra i gesti dei personaggi del
Muto e la gestualità codificata nel linguaggio dei segni, emerge chiara
al confronto di quelli con questa, ad indicare una precisa volontà da
parte dell’artista di istituire un doppio livello comunicativo con la
sua utenza. Questa dimensione gestuale dominante allude anche a quella
dimensione di fede ingenua e intensa che si coniuga ad una devozione
profonda tipica di chi vede nel rapporto con la divinità una via
d’uscita per sopportare condizioni di vita difficili: le condizioni di
vita delle campagne italiane di due secoli fa.
a cura del Centro Studi Pietro Ivaldi